Nel dibattito contemporaneo sul rapporto tra scrittura e pubblico, si tende spesso a contrapporre la comunicazione moderna – guidata da metriche, algoritmi e analisi dei bisogni – alla scrittura degli autori del passato, ritenuta frutto esclusivo dell’ispirazione o della visione personale.
Ma è davvero così? Questa ricerca nasce dal desiderio di capire se, anche nell’Ottocento, gli scrittori italiani avessero consapevolezza del proprio pubblico e se cercassero – in qualche modo – di comprenderne gusti, aspettative o esigenze. Attraverso lettere, prefazioni e altri scritti, scopriamo un mondo sorprendentemente attento al lettore, ben lontano dallo stereotipo dell’autore isolato e disinteressato alla ricezione della propria opera.
Nel corso dell’Ottocento molti autori italiani riflettono esplicitamente sul proprio pubblico, cercando di adattare la loro arte ai gusti, bisogni ed aspettative dei lettori. Queste riflessioni emergono in lettere personali, prefazioni, introduzioni e diari, in cui gli scrittori condividono la loro visione del rapporto tra autore e pubblico.
Alessandro Manzoni: “L’utile per scopo, il vero per soggetto…”
Alessandro Manzoni, figura di spicco del Romanticismo italiano, espresse chiaramente la sua poetica in una celebre lettera del 1823 al marchese Cesare D’Azeglio Sul Romanticismo. In questo scritto programmatico Manzoni dichiarava che la letteratura dovesse conciliarsi col pubblico perseguendo un fine morale e utilizzando argomenti vicini alla sensibilità dei lettori. Egli afferma infatti che «la poesia e la letteratura in genere deve proporsi l’utile per scopo, il vero per soggetto, l’interessante per mezzo» (Gli Scritti Di Poetica – Alessandro Manzoni).
“L’arte quindi avrà un fine più alto che il semplice diletto: l’utile per scopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”, sostiene Manzoni (Gli Scritti Di Poetica – Alessandro Manzoni), indicando che lo scrittore deve scegliere temi veri (tratti dalla realtà storica), con uno scopo utile (educativo/morale) e un mezzo accattivante per il lettore. Questo principio guida anche la stesura de I promessi sposi: Manzoni cercò deliberatamente uno stile accessibile e coinvolgente per un pubblico ampio, abbandonando l’imitazione dei classici e le mitologie incomprensibili ai più. Emblematico è il suo lavoro sulla lingua: risciacquando i panni in Arno, adottò il fiorentino parlato per rendere il romanzo “un’opera nata per il diletto [ma anche] per interessare un pubblico ampio” (I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni: trama e analisi | Studenti.it) (come attestano i suoi commentatori). Manzoni insomma voleva “andare incontro a un pubblico ampio” interessato a riconoscere nelle vicende storiche lezioni morali per la propria vita (I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni: trama e analisi | Studenti.it).
Ugo Foscolo: parlare al lettore e servire la nazione
Ugo Foscolo, autore a cavallo tra Neoclassicismo e Romanticismo, fu anch’egli consapevole dell’importanza del pubblico. Nella prefazione in forma epistolare del romanzo Ultime lettere di Jacopo Ortis, Foscolo dà voce al lettore tramite il fittizio editore Lorenzo Alderani. In un passaggio Lorenzo si rivolge direttamente al pubblico per anticiparne i desideri: «Tu forse, o Lettore, ti se’ fatto amico di Jacopo, e brami di sapere la storia della sua passione; onde io, per narrartela, andrò quindi innanzi interrompendo la serie delle sue lettere.» (Ultime lettere di Jacopo Ortis/Lorenzo a chi legge – Wikisource). Questa rottura della quarta parete mostra quanto Foscolo fosse attento a soddisfare la curiosità del lettore, fornendo collegamenti narrativi affinché il pubblico comprendesse appieno la vicenda sentimentale e politica del protagonista.
Non solo nell’opera letteraria, ma anche nei suoi scritti teorici Foscolo sottolinea il dovere dello scrittore verso la società dei lettori. Nella prolusione Dell’origine e dell’ufficio della letteratura (1809), egli esortò gli intellettuali italiani a mettere la loro arte al servizio dei cittadini e della patria, anziché perseguire sterili virtuosismi. Foscolo sentiva che la letteratura dovesse contribuire al “perfezionamento morale” del pubblico, in spirito quasi civile. Pur non esprimendolo in forma di lettera privata, concepì la scrittura come missione verso il popolo italiano, anticipando il concetto di letteratura nazionale popolare. (La sua stessa vita e opere, dal Carme Dei Sepolcri fino alla militanza civile dell’Ortis, testimoniano questa tensione pedagogica verso i lettori italiani.)
Giovanni Berchet: la voce del popolo come ispirazione
Tra i teorici del primo Romanticismo, Giovanni Berchet fu colui che più esplicitamente ragionò sul “nuovo pubblico” della letteratura. Nella famosa Lettera semiseria di Grisostomo (1816), manifesto del Romanticismo italiano, Berchet contrappone la platea ristretta dei dotti al vasto pubblico popolare, sostenendo che i moderni autori debbano scrivere per il popolo e con materie a lui vicine, se vogliono ottenere un’adesione sincera. Egli osserva, riferendosi ai poeti innovatori, che “non mirarono a piaggiare un Mecenate… né i soli battimani d’un branco di oziosi…, indirizzandola (la poesia) al perfezionamento morale del maggior numero de’ loro compatrioti” (Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo – Wikisource) (Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo – Wikisource).
Berchet incita dunque a “indirizzare la poesia non all’intelligenza di pochi eruditi ma a quella del popolo, affine di propiziarselo e di guadagnarne l’attenzione” (Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo – Wikisource). Nella Lettera semiseria egli traduce questa teoria in precetti concreti: invita gli scrittori italiani a prendere spunto da fedi, costumi e tradizioni nazionali, perché solo così “il popolo c’intenderà” e “i versi nostri non saranno per lui reminiscenze d’una fredda erudizione scolastica, ma cose proprie e interessanti e sentite nell’anima.” (Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo – Wikisource). In altre parole, Berchet afferma che il popolo stesso dev’essere il protagonista e il destinatario della nuova letteratura: le sue lacrime e emozioni autentiche contano più del giudizio altezzoso di pochi critici. Questa esplicita presa di posizione mostra un ribaltamento radicale: l’autore ricerca il plauso di centomila lettori comuni e considera indifferente o persino lodevole l’eventuale scherno degli accademici.
Niccolò Tommaseo: il popolo poeta e giudice
Anche Niccolò Tommaseo – scrittore, linguista e intellettuale civile – fu profondamente convinto che la letteratura dovesse fare i conti con l’anima popolare. Nella prefazione alla sua raccolta Canti popolari toscani, corsi, illirici, greci (1841) Tommaseo difende l’importanza della poesia spontanea del popolo e mette in guardia i lettori elitari: «Chiunque non venera il popolo come poeta e ispirator dei poeti, non ponga costui l’occhio su questa raccolta, che non è fatta per lui. La condanni, la schernisca: e l’avremo a gran lode.» (Niccolò Tommaseo – Wikiquote). In questo passo, dall’intonazione polemica, Tommaseo dichiara apertamente che il suo libro è pensato per un pubblico che ama e rispetta la voce popolare, non per i raffinati che disprezzano le tradizioni considerate “volgari”. Anzi, egli considera un vanto l’eventuale disprezzo dei benpensanti: se i pedanti condannano la sua raccolta di canti popolari, ciò confermerà la bontà dell’operazione agli occhi suoi e – implicitamente – del pubblico semplice a cui lui intende dar voce.
Questa presa di posizione rivela la consapevolezza di Tommaseo del duplice pubblico cui si rivolgeva: da un lato i lettori colti (che egli provoca volutamente), dall’altro il “popolo” stesso, considerato fonte di ispirazione e destinatario legittimo della letteratura moderna. Coerentemente, in altre opere come il romanzo Fede e bellezza (1840) e i suoi scritti educativi, Tommaseo insiste sulla funzione morale e nazionale della letteratura, volta a migliorare spiritualmente la gente comune. La sua prefazione del 1841 ne è testimonianza diretta, mostrandoci un autore schierato apertamente dalla parte del pubblico popolare.
Ippolito Nievo: raccontare per “utilità” delle nuove generazioni
Ippolito Nievo – giovane autore del secondo Ottocento – concepì il suo capolavoro Le confessioni d’un italiano proprio come un dialogo tra generazioni, per trasmettere esperienza storica ai lettori futuri dell’Italia unita. Nel capitolo introduttivo del romanzo (scritto nel 1858, pubblicato postumo nel 1867) il narratore ottuagenario spiega perché ha deciso di narrare la storia della sua vita: egli spera che raccontare con sincerità le vicende trascorse possa giovare a chi vivrà dopo di lui. Nievo scrive infatti (in voce al protagonista): «…mi venne in mente che descrivere ingenuamente quest’azione dei tempi sopra la vita d’un uomo potesse recare qualche utilità a coloro che da altri tempi son destinati a sentirne le conseguenze…» (Le confessioni di un italiano).
In questo passo, l’autore mostra chiaramente la consapevolezza di un pubblico di lettori “destinati ad altri tempi”, cioè le nuove generazioni che avrebbero beneficiato dell’unificazione nazionale e delle lezioni del passato. Nievo considera dunque la sua opera una sorta di servizio per i lettori contemporanei e futuri: la vicenda personale diventa strumento di comprensione storica collettiva. Coerentemente, il titolo originale del manoscritto era Le confessioni di un ottuagenario, a sottolineare il ponte tra un narratore anziano e un pubblico giovane. Nievo adotta volutamente uno stile piano e diretto, intrecciando aneddoti e “savie considerazioni” per coinvolgere sia sul piano emotivo che su quello intellettuale il lettore. Questa attitudine pedagogica e comunicativa emerge anche dalle lettere private di Nievo, dove definiva il suo romanzo “un quadro d’amore, di vita, di storia” destinato agli Italiani, “giovani e vecchi”, affinché il passato potesse illuminare il futuro di un popolo finalmente unito (cfr. sue lettere del 1858). In breve, Nievo scrive con in mente i bisogni del suo pubblico post-risorgimentale, offrendo al lettore un mix di romanzo di formazione e memoria storica, conscio dell’“utilità” sociale della propria narrazione.
Giovanni Verga: l’autore invisibile e i gusti del lettore moderno
Nell’Italia post-unitaria Giovanni Verga affronta in modo nuovo il problema del rapporto col pubblico, soprattutto nel contesto del Verismo. Verga avvertiva l’esigenza di comprendere i gusti del lettore contemporaneo, stanco dei melodrammi artificiali, e offrire invece uno spaccato di vita autentica che potesse coinvolgerlo profondamente. Una prova lampante è la lettera-prefazione a Salvatore Farina che apre la novella L’amante di Gramigna (1880). Qui Verga espone la sua poetica dell’“impersonalità” proprio rivolgendosi a un collega-lettore e, per estensione, al pubblico. Egli promette di raccontare la storia in maniera sobria e schietta, eliminando ogni filtro autoriale, perché è convinto che il pubblico apprezzerà la nuda verità dei fatti. Scrive infatti a Farina: «Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, … colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza … la lente dello scrittore.» (Vita dei campi (1881)/L’amante di Gramigna – Wikisource).
In questo brano Verga dimostra di mettersi nei panni del lettore (“tu preferirai”) anticipandone le preferenze: immagina che il pubblico gradisca vedere i fatti “faccia a faccia”, senza che l’autore li manipoli o edulcori. Prosegue infatti dicendo che racconterà solo l’inizio e la fine della vicenda “e un giorno forse basterà per tutti” (Vita dei campi (1881)/L’amante di Gramigna – Wikisource) – segno della speranza che il gusto del pubblico evolva verso trame essenziali, prive di artifici drammatici. Verga cerca dunque di adeguare la forma narrativa alle aspettative di realismo del lettore moderno: sacrifica il “colpo di scena” romanzesco tradizionale per seguire lo sviluppo logico e naturale delle passioni umane, confidando nell’“efficacia dell’essere stato” (cioè della realtà vissuta) per colpire l’immaginazione di chi legge (Vita dei campi (1881)/L’amante di Gramigna – Wikisource).
Questa strategia autoriale – “la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale”, come scrive poco oltre (Vita dei campi (1881)/L’amante di Gramigna – Wikisource) – rivela quanto Verga fosse attento al bisogno di autenticità manifestato dal pubblico tardo-ottocentesco. Nelle sue lettere egli ribadisce l’idea che lo scrittore debba sparire per lasciare il lettore libero di immedesimarsi nei personaggi umili e nelle loro vicende. La corrispondenza con l’amico Luigi Capuana mostra Verga intento a sondare le reazioni dei lettori: si rallegra quando I Malavoglia (1881) sono apprezzati per la loro verità popolare, e difende le sue scelte linguistiche (come l’uso del dialetto e dei modi di dire) perché crede che il colore locale aiuti il lettore a sentirsi parte di quel mondo. In sintesi, la testimonianza diretta di Verga nella lettera a Farina e altrove ci consegna l’immagine di un autore che studia il gusto del pubblico e adatta innovativamente la forma romanzo per soddisfarne l’aspettativa di realtà.
Giosuè Carducci: tra esigenze editoriali e aspettative dei lettori
Anche Giosuè Carducci, pur classicista di temperamento, fu consapevole delle aspettative del suo pubblico e delle convenzioni richieste nella pubblicazione. In una prefazione “Al lettore” scritta nel 1871 per una raccolta delle sue poesie (dietro sollecitazione dell’editore Barbera), Carducci ammette con franchezza il disagio di dover spiegare in prosa la propria poesia, ma riconosce che ormai è ciò che il pubblico si aspetta. «Preludere in prosa a’ miei versi, confesso che non mi piace… Con tutto ciò oggigiorno gli editori desiderano e i lettori si aspettano che i poeti… si presentino, su la soglia dell’opera loro, nell’umile prosa» (Full text of “Confessioni e battaglie”) scrive Carducci in apertura di prefazione.
Qui vediamo l’autore oscillare tra idealismo artistico e realismo comunicativo: da un lato giudica “sconveniente” (una “sconcordanza” artistica) parlare di sé in una prefazione, dall’altro ammette che nel suo tempo il pubblico vuole una guida al testo poetico. L’osservazione “i lettori si aspettano che i poeti si presentino…” (Full text of “Confessioni e battaglie”) è una testimonianza diretta della coscienza che Carducci ha del proprio pubblico: il lettore ottocentesco esige un contatto più diretto con l’autore, magari una spiegazione o un contesto che anticipi la comprensione dei versi. Carducci ironizza sul fatto che ciò avvenga perché forse “troppa menzogna fu detta in versi, e la verità ripugna ormai dal vestire metrico” – citando Heine – e dunque bisogna dirla in prosa (Full text of “Confessioni e battaglie”). Ma, ironia a parte, egli si piega a questa convenzione editoriale pur di non deludere i lettori e di facilitare la ricezione della sua opera innovativa. Si pensi che nelle Odi barbare (1877) Carducci sperimentò metri classici poco familiari: nelle prefazioni spiegò al pubblico come leggere quei versi “barbari”, confidando nella loro intelligenza ma anche educandone il gusto. Le sue introduzioni spesso fornivano chiavi di lettura storiche o stilistiche, segno di un dialogo sotteso col lettore contemporaneo.
In privato, attraverso lettere e note, Carducci talvolta manifestò impazienza verso il “volgo” dei lettori meno preparati; tuttavia, come dimostra la prefazione citata, egli riconosceva l’importanza del pubblico e accettava di buon grado il ruolo “pedagogico” di spiegare la propria arte. In Confessioni e battaglie (1882) rievoca quel momento del 1871, osservando che la prefazione fu ben accolta e compresa, segno che la sua attenzione verso i lettori non era vana. In definitiva, Carducci testimonia come perfino un poeta illustre e autorevole avvertisse la pressione delle aspettative del pubblico ottocentesco e vi si adeguasse, cercando al contempo di elevare e guidare quel pubblico.
Conclusioni
Dalle voci di questi autori – Manzoni, Foscolo, Berchet, Tommaseo, Nievo, Verga, Carducci – emerge un quadro ricchissimo di come gli scrittori dell’Ottocento percepivano il loro pubblico e di quali strategie adottassero per coinvolgerlo. Chi attraverso la scelta di soggetti nazionali e popolari (Berchet, Tommaseo), chi con il fine morale e religioso esplicito (Manzoni, Foscolo), chi tramite una narrazione schietta e impersonale (Verga, Nievo), tutti mostrarono una “coscienza del lettore” che orientò in parte la loro creazione. Le citazioni presentate – tratte da lettere, prefazioni e testi narrativi – ce li mostrano mentre dialogano direttamente col lettore o discutono delle sue reazioni. Questa attenzione al pubblico fu un tratto distintivo della letteratura italiana ottocentesca: nell’epoca del romanzo storico e del romanzo verista, degli ideali romantici e delle sperimentazioni metriche, l’autore non scrive più per sé o per una ristretta cerchia, ma si confronta con una platea più ampia e con il “popolo”. Come disse efficacemente Tommaseo, il vero giudice e ispiratore è il popolo stesso: conquistarne l’interesse e l’animo divenne l’obiettivo consapevole degli scrittori dell’epoca. Le loro testimonianze dirette rimangono documenti preziosi di questo rapporto intenso tra letterati ottocenteschi e pubblico, rapporto che avrebbe gettato le basi per la moderna figura dell’intellettuale attento al contesto sociale dei propri lettori.
Fonti:
- A. Manzoni, Lettera al marchese Cesare d’Azeglio sul Romanticismo (1823) (Gli Scritti Di Poetica – Alessandro Manzoni).
- U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis (prefazione editoriale, 1817) (Ultime lettere di Jacopo Ortis/Lorenzo a chi legge – Wikisource).
- G. Berchet, Lettera semiseria di Grisostomo (1816) (Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo – Wikisource) (Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo – Wikisource).
- N. Tommaseo, Prefazione a Canti popolari toscani, corsi, illirici, greci vol. I (1841) (Niccolò Tommaseo – Wikiquote).
- I. Nievo, Le confessioni d’un italiano (1858, pubbl.1867), Cap. I (Le confessioni di un italiano).
- G. Verga, Lettera-prefazione a L’amante di Gramigna (1880) (Vita dei campi (1881)/L’amante di Gramigna – Wikisource).
- G. Carducci, Prefazione alle Poesie (Firenze, 1871) (Full text of “Confessioni e battaglie”).
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Antonio Sanna
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